“The Egon project”

Miglior progetto “Call for Entry” 2016

Transessuale: non è facile spiegare una parola soffocata da luoghi comuni. Un termine che vuol dire un’esistenza a metà, scissa in due parti come il nocciolo della pesca appena aperto. O come due linee parallele che non si incontreranno mai. Neanche all’infinito. Perché essere transessuale significa strade buie, fari di macchine, o peggio, l’occhio di bue della abatjour della questura, pronto a fare il terzo grado sul perché e il per come. Significa anche prostituzione, vizio, malattia, disagio sociale. Parole che ai più fanno paura, ma che custodiscono panni scomodi nei quali si è costretti a vivere e che nessuno, o quasi, può capire. E bastano due seni accompagnati da una sporgenza di troppo lì dove non batte il sole, per ritrovarsi un dito puntato addosso ed essere etichettati come diversi. E riversarsi sulla strada per appagare un istinto sessuale primordiale, e adornare la vita con parentesi amorose frustranti e puzzolenti. Ma quando una madre di famiglia, una moglie, stringe un pene finto da mettere tra le gambe, allora la questione è diversa, più grande, ancora più difficile da sviscerare. E il timore prende il sopravvento, il senso di sconforto invade tutto, senza lasciare respiro. “Tostrex” urla il flacone di testosterone in gel che tutti i giorni, Egon, deve spalmarsi sulla pancia. Due cicatrici che tagliano il torace, rosse, profonde, per ripudiare quella femminilità donata da un dio ingiusto e sempre troppo parziale. La sua storia respinge i luoghi comuni raccontando in prima persona il difficile percorso della transessualità che viene scardinata da tutte le teorie mediche che ne vogliono dare, per forza, una definizione clinica. La raccolta di foto custodisce gelosamente le emozioni di una madre, rivela il ruolo di amante e di partner, disvela le sue ferite, le sue lacrime versate durante una lotta continua contro la società che si rifiuta di riconoscere l’identità di genere come un’identità slegata dal sesso biologico.

Io ed Egon ci siamo conosciuti nell’estate del 2011, all’epoca viveva ancora con suo marito e i suoi due figli in una fattoria a pochi chilometri da Pisa. Stava assistendo alle sue ultime sedute dalla psicologa, di li a poco avrebbe iniziato la terapia ormonale e affrontato il lungo percorso che lo ha portato ad essere un uomo. Ho documentato il suo percorso per più di due anni, insieme abbiamo affrontato tre traslochi, una separazione, un nuovo amore e un’operazione. È stata un’esperienza difficile, ero continuamente indecisa se abbassare l’obiettivo davanti alla sua intimità, alle sue lacrime e difficoltà, o se documentarle, a onor di cronaca. Ho trovato una via di mezzo, e questo è il risultato.