“TIA – Fotoelaborazione del trauma psichico”

Miglior progetto “Call for Entry” 2016

Era luglio, il sole scendeva tagliandomi la strada ed io non vedevo più, non più bene come prima. All’inizio pensavo ad un abbaglio ma non se ne andava. Chiudendo alternativamente gli occhi ho capito che quello destro a metà era cieco. Era un crescendo di perdite, anche le forze mi lasciavano e tutto girava con me. Certo una vaga ed indefinita stanchezza mi accompagnava da qualche giorno, ma ora di più. Arrivato a casa se ne sono andate anche le parole, le avevo dentro la mia testa ma uscivano male e me ne rendevo conto. Così ho smesso di parlare e mi sono steso mentre una pace immensa sosteneva uno stato di consapevolezza di me totale. All’ospedale all’inizio non è andata bene, ci ho messo giorni per ottenere un ricovero mentre tutto continuava a girare con me. Un pomeriggio, una notte ed una mattina, dopo giorni dall’attacco, senza mangiare, steso su di un lettino del pronto soccorso per ottenere delle cure, un ricovero o un approfondimento diagnostico e rifiutare degli ansiolitici di cui non avevo alcun bisogno. Lottare con alcuni medici ed invece avere la giusta attenzione da altri! Tralascio i particolari e deduco che fare il medico è un lavoro delicato rispetto al quale non tutti sono pronti, credo non tanto per assenza di competenze tecniche, ma per incompetenze umane, per mancanza di equilibrio personale; non lo fanno di proposito, solo sono lasciati soli a fare tutto questo. La diagnosi alla dimissione, dopo dieci giorni di ricovero, non ha lasciato dubbi, come neppure l’espressione di un primario che a una domanda che richiedeva un commento sull’operato di alcuni suoi colleghi ha risposto sconsolato:”non so cosa dirle”. Il trauma non è stato tanto il TIA ma tutto questo viaggio impervio prima che, avvenuto il ricovero, un medico giovane e innamorato del suo lavoro mi dicesse: “adesso le farò delle domande e le farò fare degli esercizi che  le avranno fatto fare ormai diverse volte, abbia pazienza”. E alfine:”humm, con questi sintomi intanto la mettiamo al sicuro da un altro attacco con una terapia farmacologica e nel contempo facciamo tutti gli esami del caso”. Certo ho avuto giorni che di notte accendevo la luce e chiudevo prima un occhio e poi un altro per accertarmi che vedevo, o che proferivo qualche parola per vedere se il pensiero aveva ancora la possibilità di esprimersi.  Fino a che mi sono messo a fare le foto, queste foto vedi, per esorcizzare la paura della perdita, per riappropiarmi in un certo senso di me; poi sarà quel che sarà, quel come deve essere che ora posso accettare. Durante il ricovero sai, ho imparato molte cose, ho imparato l’accettazione: non sapevo se le vertigini avrebbero mai smesso e mi preoccupavo per la mia famiglia ma ho imparato cos’è la vita e non ho più paura della morte. Quello che ho fatto con queste foto è stato di aiutare il mio cervello a riequilibrarsi, perchè la mia anima profonda era già in pace. Ma il mio cervello no, era stato traumatizzato e stava in stato di allerta. Così attraverso il fotografare gli ho fatto rivivere le emozioni provate; ho anche pianto fino a poter rivedere la luce.

Ti auguro di essere presente nella tua vita, di coltivare l’amore e gli affetti, di onorare i tuoi doni ed imparare dalle parti meno nobili di te, perchè non sapendo se il sole sorgerà o tramonterà, potrai solo amare, poichè l’amore, ad eccezione dell’odio, non dovendo riparare, non ha bisogno del futuro sebbene lo nutre costantemente del suo desiderio.

Ciao,  Mauro